Negli ultimi dieci anni, l’equilibrio tra ricerca accademica e industriale sull’intelligenza artificiale (AI) si è spostato drasticamente. Un recente studio pubblicato su Science e condotto da Neil Thompson del MIT, insieme a Nur Ahmed e Muntasir Wahed, evidenzia come l’industria stia dominando la ricerca, tradizionalmente appannaggio del mondo accademico.
Le aziende tecnologiche hanno assunto un ruolo centrale grazie alla disponibilità di risorse uniche: potenza di calcolo, accesso a vasti set di dati e un bacino crescente di talenti specializzati. Oggi, il 70% dei dottorati in AI lavora nel settore privato, un dato significativamente superiore rispetto al 20% di due decenni fa. Parallelamente, il numero di docenti di ricerca accademica è rimasto stagnante, mentre le assunzioni industriali sono aumentate di otto volte.
La conseguenza? L’industria produce il 96% dei modelli di AI più avanzati e il 91% dei benchmark di settore, sollevando preoccupazioni sull’accessibilità delle innovazioni per la ricerca di interesse pubblico. La disparità di risorse è evidente: il budget federale statunitense per la ricerca accademica sull’AI nel 2021 era pari a quello speso da Google per un singolo progetto nel 2019.
Secondo Thompson, questa concentrazione di potere limita la capacità dell’accademia di contribuire a innovazioni fondamentali, rischiando di compromettere ricerche non lucrative ma cruciali per il bene comune. Contrariamente al settore farmaceutico, dove il lavoro tra accademia e industria è bilanciato, l’AI richiede enormi risorse per migliorare modelli già esistenti, uno sforzo inaccessibile al mondo accademico.
Questa tendenza pone interrogativi sull’equità e sul futuro della ricerca AI: riuscirà il settore pubblico a garantire che l’innovazione tecnologica resti al servizio della collettività?