Live meeting – opening, 7 luglio ore 17:00
Le tecnologie sono oggi al centro della nostra vita. Oltre a renderci più produttivi al lavoro, rendono più vivace il nostro tempo libero, con vari dispositivi elettronici e le mille tentazioni di Internet. Rispetto ad altri elettrodomestici, però, i computer sono entrati relativamente tardi nelle nostre case. Mentre aspirapolveri, lavastoviglie, lavatrici, radio, televisori sono stati brevettati, prodotti e quindi commercializzati tra la fine del XIX secolo e la prima parte del XX, per i calcolatori si è dovuto attendere l’inizio degli anni ’80, per quanto già dai ’50 fossero utilizzati nei centri di ricerca, per sviluppare i linguaggi di programmazione e tutte le infrastrutture hardware e software necessarie alla loro diffusione su larga scala. In principio grandi come intere stanze, i computer hanno potuto ridimensionarsi grazie all’avvento dei microprocessori, che ha permesso di farli stare su una scrivania. Non è stata però l’auspicata portabilità ad aprire loro la porta di casa. Per il mondo adulto, restavano infatti uno strumento di lavoro, una cosa da ufficio, azienda. Già negli anni ’70, però, iniziarono a prosperare i videogiochi: programmi scritti al computer per l’intrattenimento – su dispositivo elettronico – di una o più persone. Una curiosità nata più che altro per testare le capacità di risposta, e audiografiche, di certi dispositivi, ma che alcuni programmatori intraprendenti trasformarono in una opportunità commerciale. In breve, il videogioco divenne un elettrodomestico, grazie alle prime console del periodo e anche agli home computer, la cui diffusione fu appunto favorita dalla possibilità di giocarci oltre che di lavorarci. Con il Vic 20, il Commodore 64, lo Spectrum, l’MSX si potevano scrivere programmi per gestire la contabilità casalinga e molto altro; ma soprattutto si poteva mettere una cassetta nel mangianastri o un floppy disk nel drive e immergersi in mondi di mistero, azione, avventura.
Per quanto ancora poco appariscenti da un punto di vista audiografico, per le capacità assai limitate dei computer dell’epoca, i videogiochi erano già un’esperienza impattante, che contribuì moltissimo ad avvicinare la gente al mondo dell’informatica. La crescente popolarità li trasformò, sul finire della decade, in un fenomeno di costume, che iniziò a produrre gadget e spin-off cinematografici in grado di sbancare il botteghino. Per questo, oltre che un semplice passatempo, la critica sociale iniziò a considerarli una possibile causa di istupidimento dei giovani, peraltro insieme a fumetti, cartoni animati e altre forme d’arte moderne. Iniziò una caccia alle streghe, soprattutto nelle scuole, in Italia come all’estero, che però si rivelò una storia a lieto fine, come quelle di molti giochi del periodo. Passato un altro decennio di assestamento, nel terzo millennio fu chiaro che le opere di intrattenimento digitale, nate per scopi ludico-commerciali, potevano essere impiegate con profitto in campo didattico, e quindi nelle scuole, come strumento formativo. Un gioco ambientato nell’antica Roma, o durante la Rivoluzione francese, poteva diventare un’efficace lezione di storia, così come un gioco basato su quiz di matematica o geografia poteva essere un ottimo compito in classe. Nacque così la gamification, in italiano ludicizzazione: la disciplina che applicava dinamiche e stili propri dei videogiochi a processi formativi e anche commerciali come il (web) marketing. Un modo per aumentare il coinvolgimento del pubblico tramite l’innesco di emozioni e stati d’animo rilevanti come: voglia di vincere, paura di perdere, gusto della sfida, spirito di competizione.
Oggi la gamification si trova dappertutto, anche dove non ci sono computer né videogiochi. Al di fuori dell’ambito didattico o commerciale, viene usata per produrre i cosiddetti comportamenti virtuosi, necessari per ridurre l’inquinamento e lo spreco di risorse non rinnovabili.
I videogiochi hanno quindi avuto due meriti.
Il primo: avvicinare le persone ai computer, in un momento in cui c’era ancora grande scetticismo, se non addirittura timore, verso di essi.
Il secondo: portare nelle vita reale regole il cui rispetto non potrà che giovare al pianeta e a chi lo abita.
L’aspetto però più sensazionale di questa rivoluzione, sociale oltre che tecnologica, è un altro. Prima che noi imparassimo dai videogiochi, i videogiochi avevano imparato da noi. Come gli stessi computer, sono stati infatti programmati in base alla nostra esperienza di esseri umani del XX e XXI secolo e in base agli obiettivi che si volevano raggiungere con essi. Un’intelligenza artificiale, magari dal raggio d’azione limitato o perlomeno circoscritto, ma che ci permette ogni giorno di confrontarci con noi stessi, sfidarci e tendenzialmente tenere fede alla vecchia massima che dice: io non perdo mai, o vinco o imparo.
I videogiochi sono una dimostrazione lampante che la tanto temuta intelligenza artificiale non può che essere un’evoluzione di quella umana, naturale. Non ci sono gnomi o folletti o alieni nascosti sotto il letto che programmano di notte i nostri computer con chissà quali scopi malevoli. Siamo noi a farlo. Quando perdiamo agli scacchi giocando contro il computer, perdiamo contro il tizio che ha programmato le regole degli scacchi dentro quel gioco. E il tizio vince perché il computer che gioca con le sue regole, a volte, è meno impaziente e distratto di noi, potendo giocare solo con le regole, senza stati d’animo o altri pensieri.
I videogiochi già all’inizio degli anni ’70 hanno anche portato un nuovo modo di leggere e scrivere. Quello della narrativa “non deterministica”. Termine coniato da Peter Langston, nel 1974 autore delle prime opere di questo tipo. Giochi di avventura orientati all’esplorazione e alla risoluzione di problemi di vario tipo – aprire una porta, illuminare un luogo buio, squartare un drago, salvare una principessa – che permettevano a chi leggeva (e scriveva le azioni del protagonista) di giocare “nella storia” anziché con la storia, come permettevano di fare i libri del tipo “choose your own adventure” che iniziavano a fare capolino in libreria. Una svolta epocale per l’intrattenimento letterario, che poi attraverso pietre miliari come “Zork”, “Adventureland”, “Acheton” e in Italia “Avventura nel Castello” di Enrico Colombini creò un genere di grande successo e ancora oggi in voga, non solo nella sua evoluzione grafica ma anche nella originaria forma testuale. Giochi in cui l’interfaccia a linea di comando, mutuata da quella della shell del sistema operativo, garantisce al giocatore la massima libertà d’azione e un’esperienza immersiva che ha pochi eguali nel mondo dell’intrattenimento, grazie anche al fatto che sfrutta il chip grafico più potente al mondo: l’immaginazione.
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Referente progetto
Marco Vallarino autore di racconti, romanzi e videogiochi testuali.
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