Abitare poeticamente il mondo

A questo serviva e serve ancora oggi la Poesia. Con l’aiuto della PoesIA?

Nel primo incontro I THINK di Ai Open Mind del 2022 le Arti al centro anche nella riflessione sull’Intelligenza Artificiale. 

di Diana Daneluz
Socia professionista qualificata e consigliere regionale di FERPI – Federazione Relazioni Pubbliche Italiana. Media Relations, lavora da sempre nel mondo dell’editoria, associazioni, aziende e pubbliche amministrazioni.
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Gli incontri I THINK di Ai Open Mind sono ripartiti nel 2022 e lo hanno fatto – in continuità con l’ultimo appuntamento 2021 dedicato all’Arte come Vita con il racconto della visione e dell’esperienza del Nuovo Abitare di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico – ancora sotto l’egida delle Arti, e di una in particolare, la Poesia. Il 21 gennaio scorso l’evento online “C’è Poesia e PoesIA – Una riflessione tra umanità e tecnologia”. 

Perché la Poesia e in che relazione con gli interessi di Ai Open Mind sullo studio dell’Intelligenza Artificiale in rapporto all’Uomo, alla Società e al suo sviluppo? Partiva da qui il dialogo tra Cristiana Freni, docente di Estetica, Filosofia del Linguaggio e Letteratura Italiana presso l’Università Pontificia Salesiana (UPS), Michele Laurelli, CEO di Algoretico, appassionato di umanità e tecnologia, e Michelangelo Tagliaferri, sociologo e fondatore di Accademia di Comunicazione, guidato da Simonetta Blasi, socia FERPI, consulente di comunicazione e docente presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale dell’UPS. 

Esiste la possibilità altra, ci si è chiesti, che emerga – rispetto alle modalità di poesia tradizionali –, attraverso le parole, una composizione diversa realizzata dalla Intelligenza Artificiale e/o con il suo supporto? E se sì, quale posto per questa modalità nella cultura contemporanea e, più in generale, che storia e peso ha la Poesia, ancora oggi, in un Paese come l’Italia, dove sembra che sempre meno spazio venga offerto, almeno nella comunicazione mainstream, ai temi della cultura?

Abitare poeticamente la terra

Cristiana Freni, nel dare testimonianza di una sua, personale, adesione profonda a questo genere letterario – trasfusa concretamente anche nel suo impegno per la Laurea Apollinaris Poeticae e per il Certamen Apollinare Poeticum – parla di Poesia come di una di quelle esperienze del linguaggio cui è difficile abituarsi. Perché, che cos’è la Poesia? Essa rappresenta, intanto, sicuramente uno dei linguaggi più antichi, modalità di espressione certamente precedente alla scrittura, avendo avuto il linguaggio poetico una sua fase orale legata alle tradizioni antichissime dei miti. Si perde quindi nelle nostre radici, non solo occidentali o italiane, ma di tutte le culture come modo di indagare la realtà, il mistero delle cose e dell’umanoMa che cosa ha di particolare il linguaggio poetico? È un linguaggio che non semplicemente retto dalla ragione, dall’evidenza razionale, ma è capace di evocare l’oltre del significato della cosa stessa detta. Impatta quindi con una delle parole più fondamentali nella storia di tutte le culture, il simbolo. Il simbolo si differenzia dal segno perché mentre il segno è un rimandare che ha come significato una visione comune della cosa detta, il simbolo no. Il simbolo è quello che ci dà da pensare. E la poesia non essendo solo segno, ma anche simbolo, è evocazione, ulteriorità di significato. Ma, soprattutto, la poesia non è solo figlia del momento in cui nasce, non è mai circoscritta al tempo in cui sorge al vivere. Esattamente così come i destinatari dell’arte non sono mai tenuti sotto controllo completamente dall’artista, in questo caso dal poeta, e invece sfuggono, nella lunga gittata, dall’ identificarsi con quelli che erano i destinatari ideali dell’artista. La poesia quindi ha questa caratteristica: non si ripete, ma è capace piuttosto di “ridire”. Anche se si conosce a memoria una poesia, quando la si rilegge, la si riascolta, quella poesia non crea mai una abitudine, ma è capace di ridire sempre. Solo la parola dell’Amore in questo senso può essere diversa: il “ti amo” è espressione ripetuta mille volte tra gli amanti eppure ogni volta è diversa Per quanto riguarda l’Italia, indubbiamente è una nazione che ha vissuto la poesia in maniera straordinaria e ne cura la memoria, si pensi da ultimo, ad esempio, ai progetti legati all’anniversario dantesco. La poesia italiana è stata produttiva e ricca fin dal suo nascere, il padre della lingua italiana è stato Dante e non solo come poeta della Commedia, ma anche per la sua produzione cosiddetta “minore”, autentica cifra di tutto questo arco di secolo, in cui la poesia italiana non è mai stata eguale a sé stessa. E anche oggi gode di grande vitalità e riconoscimento internazionale. A dimostrazione come la poesia non sia un fenomeno in regressione, anche se la vediamo nelle librerie relegata a scaffali di nicchia. Tuttavia, è tutt’altro che finita e tutt’altro che superflua. Molti sono ancora i poeti che producono e che hanno un pubblico non solo di addetti ai lavori, ma ben più ampio di quanto si pensi. Ritornare alla poesia vuol dire, ancora oggi, ritornare alle origini stesse dell’umanità. Heidegger ricordava sempre che il linguaggio poetico è il vero linguaggio della filosofia metafisica, e che “l’uomo abita poeticamente la terra”, espressione attribuita a Friedrich Hölderlin (Voll Verdienst, doch dichterish, wohnet der Mensch auf dieser Erde, “Pieno di merito, ma poeticamente, abita l’uomo su questa terra”).  Abita la terra cioè in un modo che è capace di rinnovata meraviglia, di auscultare quello che la natura ci mette davanti attraverso un occhio e un orecchio che non sono l’occhio e l’orecchio di chi rimane sulla soglia del profano, ma di chi supera la soglia e la varca, per entrare nel sacro della realtà.

La poesia una attività elitaria?

Michelangelo Tagliaferri, nel rispondere alla domanda se sia davvero così elitaria la poesia o se viceversa essa possa svolgere una funzione sociale, entrare nel tessuto della società e suggerire, ispirare, guidare, pensa che se avessimo la consapevolezza che il mondo che abbiamo davanti a noi è capovolto rispetto al dato di concretezza, la risposta sarebbe scontata: noi dovremmo andare verso la poesia perché siamo andati lontano dalla poesia. Se è vero il rapporto che la poesia rivela tra parola, suono, musica, ritmo, ascoltare quel ritmo, che è il ritmo della nostra vita, non può che implicare un approccio simbolico, verso il non conosciuto. Sentiamo, perché sono le molecole che ci fanno sentire, quella modalità d’essere del bios che consente a noi di vibrare verso quella ricerca di meraviglia, che poi chiameremo meraviglia quando ci consentirà di vedere (sentire) altro da quello che stiamo guardando, con l’uso di tutti i sensi. È la combinazione di tutti gli aspetti sensoriali che, solo in una visione poetica, può dare vita a quello che oggi chiamiamo emozione. Che poi forse ancora non sappiamo cosa sia questo dato sensoriale, anche se sappiamo per certo, lo dice la scienza, che tutte le nostre cellule, tutte insieme contemporaneamente, seppure con modalità diverse, vibrano quando stiamo sentendo qualcosa. Questo sentire è la poesia. Quale essa sia. Quell’ambito, cioè, della fantasia, dell’emozione, che consente a me di essere altro da me mentre sono, però, me stesso. In questo senso siamo tutti poeti. Poesia però, e non poetica, che è invece oggettivizzazione. E che potrebbe essere, forse, quella realizzata da una Intelligenza Artificiale o con il supporto dell’intelligenza Artificiale che in questo incontro vogliamo raccontare.

“Sarebbe bello che l’IA sapesse scrivere poesie…”

La poesia quindi si muove lungo un filo ininterrotto tra passato, presente e soprattutto futuro, e in un possibile prossimo futuro si innesta il lavoro di Michele Laurelli – https://www.michelelaurelli.it – con PoAItriy, il primo algoritmo ad intelligenza artificiale al mondo a scrivere poesie in lingua italiana. Lo studio, inserito in un contesto di ricerca e sviluppo, è stato realizzato sfruttando una rete neurale artificiale cosiddetta “ricorrente”. Il progetto è reso disponibile gratuitamente sul sito di Laurelli in open source (per ottenere il codice sorgente è sufficiente scrivere per richiederlo)  – https://www.algoretico.it/blog/poaltry-la-rete-neurale-che-scrive-poesie/ – con l’obiettivo, tra l’altro, di suscitare un dibattito sull’artista, se sia possibile o meno che sia sostituito dalla macchina, una discussione che non gli sembra ancora sufficientemente vitale e consapevole. Nato dalla costola di un altro suo progetto testuale sulla rete neurale, sviluppa l’idea di costruire qualcosa che ne svelasse il funzionamento, ma divertendo. Tra le arti, infatti, sia per quanto riguarda l’arte visiva che la musica, Il fatto che una intelligenza artificiale possa crearne non è un esperimento nuovo e non ha divertito o stupito più di tanto. Laurelli ha immaginato, viceversa, che sarebbe potuto essere bello – e divertente – che un’intelligenza artificiale scrivesse poesie. I precedenti in lingua cinese e in inglese lo hanno spinto a cimentarsi nell’impresa, portata avanti innanzitutto nello scomporre in 3 algoritmi una rete neurale: il primo algoritmo elabora una mole molto grande di database di produzione poetica circoscritta in un determinato arco temporale, fino al 1950, eliminando tutto ciò che non è poesia e generando poi un modello vero e proprio; sulla base di questo modello la macchina, in una seconda fase che è di apprendimento, rielabora la lettura; la fase tre è quella che infine produce poesia. La produzione di questo testo non avviene, però, semplicemente mescolando le parole, ma la macchina impara generando dei token che comprendono la successione delle parole all’interno dei versi, le regole stesse della metrica della poesia, e solo poi produce testi. Testi che sono stati abbastanza sorprendenti fin dalla prima volta e da lì l’idea di farne una raccolta e di darle un nome.  E di far partecipare PoAltriY ad un vero concorso di poesia dove ha ricevuto una menzione. E anche questo è abbastanza sorprendente.

Poesie “artificiali”. Belle, ma belle…sono poesia?

E alcune delle poesie prodotte in questo esperimento dall’IA, lette anche nel corso dell’incontro, sembrano, effettivamente, poetiche. Ora, questo significa che esiste la possibilità di una espressione poetica prodotta da IA che abbia un respiro sentimentale, emozionale, che contenga dei semi di originalità? Ci si è chiesto come siano definibili questi esempi e in che rapporto possano essere posti con la vasta, immensa, produzione umana di poesia. Per Cristiana Freni sono componimenti che pur non avendo una struttura metrica, sono tuttavia capaci di reattivizzare emotivamente, non sono quindi solo poesia per l’intelletto, ma coinvolgono l’emotività. Il problema, però, non sta tanto nel  risultato ottenuto con gli elaborati dell’IA, che appunto è buono e interessante, ma nel fatto che lo è allo stesso modo di come potrebbe essere buono e interessante il risultato ottenuto da un bravo lettore di poesie, che poi ad un certo momento decida di rielaborare testi all’interno della sua erudita conoscenza pregressa producendo a sua volta componimenti. Non è un fenomeno nuovo. La storia della poesia conosce da sempre l’arte del “manufatto imitativo.” Croce chiamò il 400, un secolo fondamentale che ha segnato l’inizio di una nuova umanità, “secolo senza poesia”, perché vi ha visto un depotenziamento di questo genere letterario. E non perché non ci fossero poeti, ma perché gli stessi erano piuttosto letterati che si cimentavano nella poesia, pedissequi imitatori di stilemi poetici già conosciuti, riproposti attraverso la memoria straordinaria degli eruditi quattrocenteschi, i quali non realizzano così, secondo la critica crociana, veramente dei prodotti di poesia. Ecco, questa critica si potrebbe (forse) muovere, secondo la docente, ai seppure belli componimenti prodotti da una IA, capace di imitare, ad esempio, un poeta come Montale, e di utilizzare un patrimonio di memoria praticamente illimitato, per arrivare a componimenti che possono essere, sono, belli in sé stessi, ma non sono poesia originale e originaria. E se è vero che la cifra della vera arte sta sempre nella novità che l’arte è capace di produrre, forse quelle prodotte dall’IA sono poesie sicuramente intriganti, ma depauperate di un elemento fondamentale perché si possa parlare di poesia: la mancanza l’autore stesso, della sua esperienza e del suo vissuto che si fanno opera d’arte. Mancherebbe, quindi, la coscienza, quella dell’artista nella sua stessa dimensione esistenziale. Quindi, l’arte prodotta dall’IA è sicuramente una provocazione, può essere capace di scatenare emozione, ma resta il dubbio che non essendo espressione di una coscienza non sia vera poesia, ma una virtuosissima imitazione della poesia. Perché anche se oggi è forse vero che non possa esistere un’arte senza la tecnica, il rischio di questi esperimenti è che si traducano in una tecnica senza arte. La risposta di Michele Laurelli a questa che somiglia molto ad una “stroncatura” risente di quello che è il lavoro di informatico che svolge, scrivere software con la sua società Algoretico, che gli ha permesso e gli permette di vedere nella attualità della programmazione sempre più arte e sempre meno tecnicalità e quindi in questo esperimento particolare identifica, vede, l’arte nella scrittura dell’IA stessa ed eventualmente nella scelta da parte dell’IA delle poesie da rielaborare. Michelangelo Tagliaferri dal canto suo risponde con un ulteriore salto logico. La produzione di questa IA in forma polisemica e diversamente interpretabile avviene all’interno di una tecnologia che riproduce cose che già esistono. Ed esiste anche questo poeta “cyborg”, che esiste, però, non “è”. Esistere non è essere. L’essere presuppone una modalità che molto semplicemente è quella della vita. Il poeta cyborg non è capace di riprodurre la vita e non può essere riprodotto come vita. In questo senso è un avatar, un modo attraverso il quale riproduco altro da me, ma per quanto possa soffiare con forza dentro la materia non potrò mai soffiarvi dentro la vita, mai l’Uomo. Potrà al massimo restare una produzione “ominide”, anche se e quando realizzata da un robot massimamente antropomorfizzato. E per esorcizzare la paura sempre in agguato che esso possa prendere il mio posto ci viene in aiuto il linguaggio. Queste nuove cose esistono, ma sono altro e devono essere chiamate in un altro modo, con altri termini. La necessità di un nuovo vocabolario è condivisa del resto dallo stesso Laurelli, che però rivendica il senso di un ragionamento e di una sperimentazione nella direzione di poter fare di questo strumento una forma di espressione di sé stessi. L’idea era poi anche quella di perdersi nello sperimentare qualcosa, giocando con alcuni degli strumenti di un mondo nuovo, mondo nuovo che però spetta ai filosofi, non ai tecnici, disegnare. Qundi, l’IA che scrive poesia andrebbe immaginata come uno strumento e come strumentale

PoAltriy dimostra la disponibilità un nuovo strumento. Potrebbe, e se sì come quindi, essere poesia e in qualche modo cambiare la poesia?

Se un singolo poeta – si è chiesto Laurelli – prendesse solo tutta la sua produzione, anche quella non ancora pubblicata, e utilizzasse l’Intelligenza Artificiale che elabora poesia come uno strumento di sviluppo di quella che non sarebbe più la somma delle esperienze e dei vissuti di altri poeti, ma solo la sua, e poi rielaborasse quanto suggerito dalla macchina, cosa ne verrebbe fuori? Come strumento, in altre parole, quello realizzato con PoAltriy potrebbe avere una sua utilità per l’espressione dell’artista stesso, aumentandone le potenzialità? Una domanda che ne tira con sé un’altra: in quale modo questo sistema tecnologico potrebbe aiutare lo sviluppo del genere “poesia”? Per Cristiana Freni, però, per questi esperimenti non si può parlare di poesia, nemmeno nel caso suggerito da Laurelli. Perché l’esistenza non è mai staticità. La stabilità esistenziale di una persona non è staticità dell’essere esistente e quindi l’esistenza di un poeta non sarà mai la stessa in ogni periodo della sua vita. E dietro la poesia c’è anche una dimensione conoscitiva e della realtà. La poesia racconta da millenni innanzitutto la realtà, la fedeltà al reale degli antichi ha nutrito le arti. L’esigenza della narrazione è intrinseca nella nostra struttura d’essere e il logos – e quello poetico in particolare – l’ha potenziata. Ciò significa che anche se noi producessimo una poesia che è frutto di una rete neurale nutrita dell’esperienza di un solo poeta, sarebbe poesia? No, perché ogni poesia ha dietro un singolo momento conoscitivo ed interpretativo di sé stessi, in una esperienza che è intrinsecamente dinamica. Ciascuno poi, coglie le cose nella sua modalità interpretativa, il filtro è sempre la coscienza. Non potrebbe pertanto, secondo l’opinione della docente, essere mai poesia nel senso più profondo, anche se la produzione da cui proviene il componimento artificiale è frutto di una verità esistenziale, perché ogni poesia se è poesia non è ludus, non è gioco, non è divertissment. Ce lo insegna Ungaretti, quando in poche righe racconta le ragioni della “sua” poesia: “Soltanto la Poesia, l’ho imparato terribilmente, lo so, la Poesia sola può recuperare l’Uomo, perfino quando ogni occhio si accorge, per l’accumularsi delle disgrazie, che la Natura può dominare la ragione e che l’Uomo è molto meno regolato dalla propria opera che non sia alla mercè dell’elemento”: la poesia non è uno scherzetto pacificante, e non può essere ridotta a gioco. Ecco, in questa produzione artificiale quel “terribilmente” molto probabilmente non c’è, e se non c’è quella poesia non sarà poesia a modo d’essere di quella poesia esercitata per millenni. Non una poesia che sia poesia nel senso che appunto ci sia dietro quell’aggettivo sostanziale, perché significa “umano”. E questo aggettivo sembra assente anche nella misura in cui si produca poesia artificialmente in un cantiere che è assolutamente monografico, riferito cioè soltanto ad un autore. Quindi si sta parlando, qui, di “altro”.

Quali spazi per “frequentare”, oggi, la poesia? 

Uno di questi è quello offerto dalla Laurea Apollinaris Poeticae, premio che nasce negli anni ’70 a Milano per l’intuizione di Serena Siniscalco come “Premio Streghetta”, come controcanto al noto premio per il miglior romanzo, e che un premio alla carriera, un riconoscimento al miglior poeta “laureato” di derivazione Oraziana. Premio che ha una storia antica quindi e che dal 2013 trova casa presso la Università Pontificia Salesiana, presieduto dal Prof. Orazio Antonio Bologna. Un premio che da una parte “premia”, appunto, il miglior poeta vivente e dall’altra si propone di valorizzare la produzione della poesia da parte di cultori del linguaggio poetico, con un concorso a cui possono partecipare tutti attraverso raccolte poetiche edite o inediti. A testimonianza che la poesia è una “pratica” che ancora esiste e che esiste in tutte le fasi della vita, con persone di ogni età e di ogni professione che vi si cimentano. Da quest’anno è stata introdotta anche la categoria degli adolescenti, come protagonisti della pandemia in senso negativo, a cui è stato chiesto di raccontare attraverso la poesia questo momento trascorso e in ancora atto che in tanti di loro ha indotto stati di crisi e depressione. 

Uno sguardo poetico nella comunicazione pubblicitaria

Una sfida da cogliere, inevitabile, secondo Tagliaferri, tenendo presente che siamo oggi immersi in forme di promozione delle merci cambiate, che seguono la logica e gli schemi dell’algoritmo: parole che riproducono parole attraverso parole. Un esempio, la parola “sostenibilità”, visibile in tutti e per tutti i prodotti. Se è vero che c’è questa modalità tecnico-tecnologica che incrocia l’umanesimo umanistico per cose altre dall’umanesimo umanistico, che va avanti per la sua linea evolutiva, ma che può contribuire alla sua linea evolutiva; se questo è vero, che ben venga che questa modalità di generare espressioni in ordine ai problemi del mondo lo rappresenti. Ma, si chiede, come lo rappresenta un prodotto sostenibile una poetica dell’algoritmo? Tutto oggi, con ogni probabilità, deve contribuire alla narrazione in modo tale che tecnologia e umanesimo partecipino, ciascuno col suo, in una modalità collaborativa ineludibile.

Le battute finali? Affidate ad un Poeta, naturalmente

Ai Open Mind sceglie di chiudere questo confronto problematico e ricchissimo di spunti e domande più che di risposte, come richiede la complessità attuale del nostro tempo, facendo parlare un poeta, Eugenio Montale, con la poesia “Limoni”, tratta da Ossi di Seppia, nell’interpretazione di Nando Gazzolo. Una poesia scritta negli anni ’20 da un giovane poeta che proprio in quel testo mostra di comprendere come fissare, immortalare, le cose proprio nel momento in cui stanno per abbandonarci, “per tradire il loro ultimo segreto”. L’Uomo è un mistero e sul mistero non si può mai dire l’ultima parola. La Poesia è proprio questa capacità straordinaria di aprire, di descrivere il mistero che siamo, il mistero in cui siamo immersi, il mistero che ci trascende. In questa poesia, nell’apparente banalità di una pianta di limoni, nel giallo e nell’odore di quei frutti, si nasconde lo stupore inaspettato, il richiamo a qualcosa di altro nell’esistenza di tutti i giorni.

E ogni altra parola – umana o artificiale – è adesso, davvero, superflua.

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